Ricordo di Alfredo Schiaffini

16 marzo 2022

Alfredo Schiaffini e la lingua letteraria italiana

Mi è caro riproporre agli studiosi il ricordo dell’opera di Alfredo Schiaffini (Sarzana, 16 marzo 1895 – Viareggio, 26 luglio 1971), storico della lingua italiana, promotore e animatore primario della diffusione della stilistica e delle idee di Leo Spitzer nella cultura italiana degli anni Cinquanta. Ai problemi di stile lo aveva avviato l’insegnamento di Ernesto Giacomo Parodi (1862-1923), filologo molto aperto e non insensibile a stimoli dell’idealismo crociano, «che possedeva una profonda conoscenza dello strumento linguistico insieme con una acutissima e salda sensibilità storica per le sfumature stilistiche». Tale il giudizio di Gianfranco Folena, che nel 1957, per i tipi di Neri Pozza, curò i due magistrali volumi di Parodi dal titolo Lingua e letteratura. Studi di teoria linguistica e di storia dell’italiano antico. L’incontro con il pensiero di Benedetto Croce fu per Schiaffini determinante. Lo attrasse il Croce filosofo dell’individuale concreto, centro motore della storia, il suo amore per ciò che nella storia è dinamico, per la poesia e per la vitalità. Il filologo deve farsi anche storico di tradizioni formali, come attesta il titolo del libro forse più noto di Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale al Boccaccio, salutato da Gianfranco Contini come un classico della nostra filologia. I due termini di tradizione e poesia si integrano reciprocamente come forze eterne della dialettica letteraria e mostrano come, nelle personalità geniali, una tradizione possa rifondersi e rigenerarsi in nuovi atti di vita. La forza creatrice di Dante e Boccaccio, pur nutrita e quasi saturata di così copiose e vaste tradizioni culturali, riesce a riplasmarle e ad esprimere nuove visioni del mondo. In scrittori minori come Guittone d’Arezzo la tradizione opprime le meno vitali forze espressive individuali, ma la disciplina retorica accettata e praticata con tenace impegno svolge una funzione storica di raffinamento tecnico, di elaborazione culturale, dissodando pazientemente il terreno dal quale germoglierà nuova vita di poesia. Così da un terreno saturo di cultura fiorisce la Vita Nuova, che Schiaffini caratterizza e descrive nei suoi ritmi incantati di Legenda Sanctae Beatricis, verificando sul piano della tecnica espressiva una bella intuizione di Croce, confermata da Vittore Branca, in occasione del centenario dantesco del 1965, con richiami a testi della tradizione agiografica. Di «tecnica interiore», concetto crociano già ricordato, si può parlare non soltanto per la Vita Nuova, ma anche per il Convivio, nel quale la convenzionale tecnica della prosa rimata si è «fatta cosa nuova, perché assume il colore e la musica, il carattere e il tono che l’anima di Dante robustamente le infonde e imprime». La composita esperienza culturale e stilistica di Boccaccio finisce per decantarsi nell’originalità profonda del Decameron senza più ingombrare né pesare, consustanziata ormai col più riposato compimento dell’artista: «il tormento formale del Filocolo, dell’Ameto e di parte della Fiammetta, si libera definitivamente in armonia, proporzione, musica».

In occasione del centenario pascoliano del 1955, in concomitanza con la memorabile conferenza di Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, Schiaffini pubblicò uno scritto dall’eloquente titolo Giovanni Pascoli disintegratore della forma poetica tradizionale, che contiene la seguente affermazione: «Il momento cruciale, il salto di qualità, nella storia del nostro linguaggio poetico, sono rappresentati dall’opera di Giovanni Pascoli». In Pascoli «si scioglie l’organismo della strofa, sostituita da un labile succedersi di immagini, sensazioni, cose». (È la stessa «rivoluzione inconsapevole» di cui parla Giacomo Debenedetti e alla quale si intitola il suo postumo volume pascoliano edito da Garzanti). La poetica delle cose è al centro dell’opera di Pascoli, ma radicata in «una musicalità dell’animo perplessa, tormentata e convulsa», che risponde al suo temperamento. «E la fedele aderenza al reale e al concreto, con la congiunta considerazione del particolare, importa la ricerca di una espressività nuova, colorita e immaginosa, essenziale e antiletteraria. Fa che si spezzino in frammenti e si isolino le impressioni, si sciolga il periodo in frasi brevi e sobbalzi, si avvolgano di silenzio isolandole, le parole». Quest’ultimo passo appartiene a un denso e lungamente meditato saggio dal titolo Antilirismo del linguaggio della poesia moderna, in cui sono esaminati momenti dell’«evolversi del nostro linguaggio poetico in direzione dell’antilirico e quotidiano». Certo l’apertura di uno dei pascoliani Canti di Castelvecchio, La mia malattia («L’altr’anno, ero malato, ero lontano, / a Messina: col tifo») non è lontano dal sintomatico inizio di una nota poesia di Marino Moretti: «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena». Schiaffini traccia rapidamente una linea che dagli Scapigliati, attraverso Vittorio Betteloni (che nel 1865 scriveva nella poesia Per una crestaia versi come «Si stava assai benino Un tempo alla Regina: Buona cucina, Ottimo vino») arriva a Gozzano (il primo, a parere di Montale, che abbia fatto «cozzare l’aulico col prosaico», e che fa rimare Nietzsche con camice). Poi a Corazzini e ai crepuscolari, a Moretti delle Poesie scritte col lapis (significativo titolo), all’estroso Palazzeschi. E poi ai futuristi, con la chiassosa battaglia contro tutti i mezzi espressivi tradizionali. A Saba, poeta della parola comune e «senza storia», a Sbarbaro col recitativo in sordina di Pianissimo e di Rimanenze (altri significativi titoli), a Caproni, a Pasolini, «mirante all’estesa discorsività, al parlato e al popolaresco». I crepuscolari «calarono lo sguardo dall’aquila astripeta alla bigia e gemente tortorella». In Montale sarà «favorito l’accoglimento di particolari e cose: che vengono qualificati con parola precisissima o di cruda letterarietà». Già I limoni, all’inizio di Ossi di seppia, contengono uno dei canoni della poetica di Montale, il rifiuto di bossi, ligustri e acanti, cari ai poeti laureati. «Non più dunque il dantesco diletto legno d’Apollo, la fronda peneia, i lauri tra cui sospira la canzone del Petrarca; la rosa e il melograno di G. B. Marino; né l’elce nera di Carducci o i gigli di Mallarmé e D’Annunzio; il gelsomino, i biancospini, i rosai di Pascoli, ma i ciuffi delle canne e i limoni. E nemmeno aquile e cigni e pavoni e delfini; ma le anguille e gli ossi di seppia. E un paesaggio desolato, che rispecchia la cupa inquietudine del nostro tempo, la sua disperazione e solitudine, la sua ostilità greve; disperazione e solitudine che si fanno più fosche ne La bufera». In uno studio su Arte e linguaggio di Gabriele D’Annunzio, apparso, come per Pascoli, nel centenario della nascita del poeta, l’interesse di Schiaffini storico delle forme si appunta di preferenza sul prosatore, e in particolare su quello «più creativo e originale», quello che per molti studiosi «ha più operato e può agire più sotterraneo e profondo, inserendosi con maggiori titoli nella storia della nostra tradizione di lingua e civiltà». Cioè il cosiddetto secondo o ultimo D’Annunzio della memoria notturna e segreta, dell’«esplorazione d’ombra», che dalle premesse di Forse che sì forse che no ( più «poema musicale» che romanzo), prosegue con la Leda senza cigno (non racconto ma «favilla lirica e antinarrativa»), la Contemplazione della morte, Le faville del maglio, il Notturno (esemplare per la «sintassi franta, semplificata, che obbedisce all’ordine diretto», le immagini in successione  visiva o enumerazione, le frasi uniproposizionali, proposizioni nominali, «la parola che campeggia isolata, avvolta nel silenzio»); e poi la Licenza  della Vita di Cola e gran parte del Libro segreto, zibaldone di vari stili. La sua sensibilità frammentaria, protesa all’istante, la sua vocazione «diaristica», paratattica, già rilevabile in un taccuino degli anni ’81 e ’82, gli consentirà un giorno, in momenti di felice rinuncia a velleità di magniloquenti architetture, di aprirsi verso forme intraviste di un’arte nuova, di avvertire nel silenzio voci, ancora velate, dall’avvenire. Invito gli studiosi a rileggere questi saggi ammirevoli per acume storico, sensibilità alla poesia, esemplare chiarezza di stile, raccolti ora nel volume postumo Italiano antico e moderno, a cura di Tullio De Mauro e Paolo Mazzantini, Ricciardi, Napoli 1975. Oltretutto appartengono a un momento particolarmente fecondo e felice della cultura letteraria italiana ed europea.

Emerico Giachery

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